Autore: Lina Maria Ugolini
Editore: Forum/Quinta Generazione
Anno: 1991
Età di lettura: Per tutti
Presentazione di Antonio Di Grado
Attribuire ai poeti d'oggi una disposizione narrativa è diventato un luogo comune degno di Bouvard e Pécuchet: nulla di male, giacché v'è forse più da dire e da fare nei luoghi frequentati dai propri simili che in quello disertati, dove s'aggirano solo pochi geni incompresi votati al risentimento e alla vendetta.
E tuttavia non intendo alludere a quell'ovvia e dichiarata, dimessa e tediosa narratività neo-crepuscolare, in cui il verso ansimando s'affatichi e mimare i tempi brevissimi e sincopati della cronaca e ciabattando s'impantani nei melmosi acquitrini della quotidianità. Penso, piuttosto, a quella prosa implicita e segreta affidata cioè alla coerenza strutturale e agli sviluppi tematici d'un leit-motiv, che è da Leopardi in poi la scelta obbligata dei «moderni» che alla «prosa del mondo» adattino il tessuto scabro e raziocinante d'una disincantata poesia «sentimentale». Una poesia, cioè, adeguatamente problematica, capace perciò di rinunziare senza rimpianti agli incanti naïfs della poesia «ingenua», ma anche di attestarsi sulla precaria trincea del canto senza cedere alle corpose lusinghe della scelta immediatamente prosastica, né alle illusorie premesse di «magnifiche sorti e progressive» implicite nella Bildung romanzesca.
A quest'ultima, vale a dire ai percorsi rettilinei della «formazione», il canzoniere di Lina Maria Ugolini sostituisce l'itinerario divagante ed erratico della «individuazione»: un processo, questo, tortuoso e dilemmatico, un gioco d'ombre e di specchi, un passo di danza e una smemorante caduta, un corteo di enigmatiche epifanie, un traumatico e tuttavia ammaliante sdoppiamento. La tensione che dà ritmo ai versi e parvenze d'intreccio al mito si genera, infatti, e si snoda dallo speculare disporsi di due figure: la creatura affabulante e artefice dell'evocazione e, di contro e anzi a riscontro, la creatura evocata, che ha nome Amaranta ed è la Selvatica, «la signora del non detto».
Come a dire: l'io e l'anima. Ma di fronte a quella vagheggiata Amaranta bianca e pacata / fatta di rose secche e friabili / fatta di trecce raccolte in pettini / fatta di comandi e imperativi, s'accompagna e subito si dilegua un io sfuggente e metaforico, autoironico e autoerotico, tentato e anzi «caduto» («un tonfo»), disponibile alla mutazione e alla disgregazione («un' impronta di talco, di cipria / un soffio»), insomma una «sbriciolata fluorescenza» («ti disfai, ti misconosci»), vogliosa di perdersi e d'incarnarsi altrove sull'onda «maliosa» d'una «femminile affinità». La poesia, «filamentosa essenza delle cose, appiccicosa compagna di vita», è il fluido, umoroso, vibrante tramite della metamorfosi, di questa singolare gnosi femminile fremente di sensi opulenti e accesa di'incorporee melodie, di quest'accorto gioco di separazioni e ricongiungimenti, di beffarde evasioni e torpidi cedimenti, di lucide introspezioni e rapinose estroversioni. È un incessante metonimia, uno slittamento del senso da un oggetto all'altro del desiderio e da un'ombra all'altra del sogno, è una «fuga» (nell'accezione, anche, musicale): come nel delizioso divertissement arcadico e libertino che s'intitola Pas de quatre e con morbida grazia ed aerea levità pedina e mima quell'indefinito e infinito scivolare e scoscendersi delle cose e delle relazioni, dei volti e dei nomi.
E non potrebbe essere altrimenti, giacché la narrazione in versi di "Lilli" Ugolini non riguarda, come s'è detto, la prevedibile «formazione» d'una maturità austera ed integrata, bensì una «individuazione» interminabilmente giocosa e inevitabilmente perigliosa, che ha per fine la morte dell'io e il fantasma del ricongiungimento. Narrazione, dunque, fragile e segreta: affidata com'è al colore d'un suono o all'eco d'un moto anziché ad eventi corposi e credibili, insomma, all'unità tematica d'un leit-motiv esile come una memoria remota, labile come quelle tracce sui tronchi e orme di stoviglie sulle mense che tramano la fitta segnaletica di questi Canti.
Giova aggiungere che l'autrice coltiva la danza? E che nelle sue vene isolane fluisce una linfa d'iniziatica letterarietà ereditata dal nonno, vitalissimo e obliato scrittore toscano del robusto ceppo di Strapaese? Forse, ma solo se è di Lina Maria Ugolini che s'intende trattare: e qui, forse, s'è trattato invece del suo «doppio», di quell'anima delle donne che è la Donna, la «signora del non detto».
Antonio Di Grado
Maggio, 1991